Due citta, due case, due armadi. La valigia sempre pronta in un angolo per essere riempita: al momento di ripartire dal paese, è matematico, sarà più pesante, quasi come se si volesse portar via con sé un po’ di casa. Sono i piccoli problemi dello studente fuori sede, moderno emigrante verso la terra di nessuno, diretto verso le grandi città tentacolari che lo attirano con strabilianti promesse.
Sembra assurdo parlare di “emigrazione”, appena la pronunci questa parola ti porta in un mondo lontano fatto di sirene di navi in partenza, di personaggi disperati costipati sulla banchina di un porto, di valigie di cartone. Un mondo lontano, in bianco e nero. Ma come definire altrimenti un massiccio abbandono della terra natìa, per cercare, magari un pugno di chilometri più in là, la terra promessa? Un luogo dove sia possibile continuare a studiare dopo il diploma, trovare un lavoro dignitoso, o anche solo avere un cinema o una libreria sotto casa. E si dirà che questo è il compromesso imprescindibile per chi vuole vedere cosa c’è al di là della staccionata, che vuole respirare l’aria del multiculturalismo, provare a stare un po’ lontano dalle sottane di mamma e imparare a far da sé. Ma non si tratta di un gioco che dura il tempo che trova: andarsene è diventata necessità. Necessità di chi non ha altra alternativa. Da chi sogna di fare l’avvocato, il medico o lo scrittore a chi cerca un lavoro in fabbrica o da cameriere, tutti devono ripetersi lo stesso ritornello: « devo andar via, e chissà se mai tornerò ». Ed ecco che negli anni lo spettacolo di una terra svuotata dall’esodo si fa sempre più straziante. Un via vai scandito dai continui andirivieni di treni, autobus e aerei, di piazze riempite solo per una manciata di giorni, preferibilmente a pasqua e natale. Chiunque si fermi davanti a un bar, in una sera qualunque, e provi ad affinare l’udito, sentirà uscire dalle bocche di quei gruppi di giovani irpini purosangue parole di sconforto e rassegnazione. Lo sconforto e la rassegnazione di chi si sente rifiutato dalla propria terra, che sa di essere destinato a una vita lontana dagli affetti e dai luoghi in cui è cresciuto. Luoghi dove ormai «non c’è niente», dove «anche quella scuola sta chiudendo», dove «cosa ti devi inventare per vivere?»
E va bene che la bellezza dell’Irpinia risiede anche nel suo essere così incontaminata e selvaggia: quell’ Irpinia terra madre, che ti accoglie con il suo mare di grano ai lati delle strade e i tramonti che affogano tra le sue colline. Che ti regala quel vento che ti scompone i capelli e riordina i pensieri, che scandisce il suo passaggio con le rotazioni leggere delle eliche delle pale eoliche. Irpinia d’oriente, con un suoi paesi che di notte sembrano grappoli di stelle nel buio, che prendono vita nei racconti di un paesologo e nelle canzoni dei poeti a cui ha dato i natali. Irpinia madre amorevole, cosi bella da vivere nelle notti d’estate o da guardare quando un manto di neve la ricopre tutta.
Poi l’ Irpinia matrigna rivela il suo ventre dilaniato dalla solitudine e dal silenzio, che pullula di bar semivuoti nelle piazze, di sedie e tavolini dove giocano a carte vecchi dal volto rugoso di sole e fatica e qualche gruppo rado di bambini insegue un pallone. Terra orfana di gioventù, vittima dell’esodo di chi è costretto a fuggirla per cercare la sua fortuna altrove ma che sogna, un giorno, tra le sue braccia, di tornarci. Di allargare le proprie radici nella sua terra campana ancora così pulita, che ha resistito ai vili tentativi di avvelenamento, che all’essere discarica ha preferito essere ventre fertile per i semi degli agricoltori. Irpinia che sopravvive solo nel ricordo di tempi luminosi in cui era fucina di cultura e di scuole, di riti e cerimonie irrinunciabili e collettive.
Ogni anno, dopo l’ esame di maturità, l’esercito dei moderni emigranti si infoltisce, lasciandosi alle spalle strade vuote di desolazione, fabbriche chiuse, banchi di scuola vuoti per i pochi iscritti, concittadini stanchi e rassegnati. E al ritorno, con la valigia piena di esperienza, di nuovi idiomi e il tanto sospirato “pezzo di carta”, i nostri giovani, l’energia più pura dell’Irpinia, sono accolti come ospiti di passaggio, visti alla stregua di traditori che hanno abbandonato il proprio paese al suo destino, il cui desiderio di tornare è visto solo come un’utopia, il risultato di un rimorso di coscienza.
Se non si pone rimedio ora, quale sarà lo scenario tra venti, trenta, cinquant’anni? Forse cercare di fermare le partenze sarebbe chiedere troppo, ma creare le condizioni per tornare e restare, imparando ad investire in un così grande capitale umano sarebbe un buon punto dal quale ripartire. A vent’anni ci si crede capaci di cambiare il mondo: ma prima di cambiare il mondo o l’Italia affogata nel cumulo di macerie della crisi, bisogna salvare la nostra terra madre. Valorizzarla, riportarla alla vita, ai suoi antichi splendori. Renderla culla fertile attraverso le competenze acquisite negli anni di esilio forzato, una volta tornati alla propria terra promessa, per rendere l ’Irpinia terra del futuro e dell’innovazione, non solo terra rassegnata e pronta a vedersi morire.
IRENE MEGLIOLA