«Vorrei qualcosa per far vivere la gente dignitosamente. Forse chiedo troppo? Io sono qui non per me, ma per le persone che hanno i miei stessi problemi».
Queste le parole pronunciate da Mauro Sari, imprenditore di Savona, ai microfoni di un giornalista di Quinta Colonna, davanti alla villa genovese di Beppe Grillo, il 26 febbraio 2013. Non appena saputi i risultati elettorali che annunciavano il successo del Movimento Cinque Stelle, l’artigiano edile savonese è montato in sella al suo ape car, sul parabrezza un cartello e una scritta col pennarello rosso: “grazie Beppe”. Una ventata di fiducia nel cambiamento di una situazione politica in stallo, una speranza per riemergere dal baratro della crisi economica con leggi ad hoc per consentire la sopravvivenza delle piccole e medie imprese. Sari denuncia al giornalista il suo problema: un debito presso l’Inail che gli aveva precluso la possibilità di ottenere il Durc (documento unico di regolarità contributiva) indispensabile per lavorare, assumere, ottenere appalti. Si dice fiducioso nel nuovo governo, i suoi occhi stanchi brillano di speranza. Speranza vana: Mauro è morto il 17 maggio, nel parcheggio di una trattoria della via Aurelia cospargendo il suo corpo con un tanica di benzina: un cerino, poi le fiamme. Il suo cadavere è stato ritrovato carbonizzato accanto al suo ape car. Aveva solo 47 anni.
Il 20 maggio l’Inail nazionale ha dato, pubblicandolo sul suo sito istituzionale, qualche chiarimento sulla posizione dell’artigiano, ritenendo doveroso precisare che la sua impresa era del tutto in regola e che la relativa attestazione di conformità gli era stata rilasciata il 10 maggio scorso. Nel 2013 l’artigiano avrebbe dovuto pagare all’Inail solo il premio annuale di assicurazione della sua ditta, per la quale aveva chiesto e ottenuto di poter pagare in quattro rate. Non è bastato, evidentemente, a risollevare i suoi bilanci: Mauro Sari si è ucciso il giorno dopo la scadenza della seconda rata. Nel suo telefonino, un ultimo messaggio alla moglie: « Vedrai che supereremo anche questa ».
Soltanto l’ultimo delle vittime della crisi, Sari si aggiunge alla schiera muta di chi non ce l’ha fatta a resistere, a superare i piccoli grandi problemi quotidiani, al veder chiudere l’azienda costruita con i sacrifici di una vita, ai soldi che mancano per pagare l’affitto, il mutuo, le bollette. È andato ad infoltire l’esercito ormai silenzioso che si è lasciato alle spalle famiglie distrutte, figli orfani, mogli vedove, a causa di una disperazione che porta a gesti tragici, fatti da chi non ha più voce neanche per urlare il proprio disagio, ai quali il suicidio sembra l’unica via di fuga per non guardare in faccia la sconfitta.
E’ un bilancio doloroso quello effettuato da Link Lab, il laboratorio di ricerca socio-economica della Link Campus University: se nel 2012 i suicidi totali imputabili a ragioni di carattere economico e finanziario erano stati 89, nel primo trimestre di questo 2013 siamo purtroppo già arrivati a quota 32, circa il 40% in più di quelli registrati l’anno scorso nello stesso periodo.
I governi si alternano, dal berlusconismo ai tecnici, tra voti di protesta e soluzioni a larghe intese. Sempre le stesse promesse e le stesse bugie. E mentre si pensa a salvare le poltrone, lo scenario del paese si fa sempre più cupo, tanto che, stanco di restare a guardare, Romano Pucci, a meno di un mese dalla sua elezione a presidente del Confartigianato di Pisa, si è fatto portavoce scrivendo una lettera aperta al presidente della Repubblica Napolitano: « Alcuni, troppi imprenditori – scrive Pucci – non ce l’hanno fatta. Ma quanti ancora non ce la faranno? Quanti ancora dovranno arrivare a questi gesti estremi prima che lo Sato si accorga di loro? A quanti suicidi dovremo ancora assistere prima che lo Stato si renda conto che, forse, è corresponsabile di queste morti poiché non ha creato le condizioni necessarie affinché gli imprenditori potessero continuare a lavorare? Per vedere un intervento forte dello Stato in favore di noi piccoli imprenditori e fermare questa sequela di suicidi, dobbiamo forse aspettare che qualcuno decida di citare in giudizio lo Stato per omicidio colposo?». Parole dure ma necessarie per chiedere una presa di coscienza, per non lasciare inascoltate le richieste di aiuto, prima che sia troppo tardi.
IRENE MEGLIOLA