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Convenzione di Istanbul: la ratifica che coincide con l’ennesimo caso di violenza sulle donne | di Irene Megliola

Prevenire, punire, proteggere: queste le tre “P” della ricetta proposta nel 2011 dalla Convenzione in materia di prevenzione e contrasto della violenza sulle donne, comunemente chiamata Convenzione di Istanbul. Si tratta del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza e che per la prima volta l’ha riconosciuta come una «violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione».

Prevenire, rimuovendo le disparità retributive ed educando al rispetto per eliminare le discriminazioni di genere.

Proteggere le vittime, smettendo di tollerare un sistema di regole frammentate e insufficienti, ma realizzando leggi efficaci ed immediate.

Punire gli aggressori, con condanne certe e proporzionate al crimine.

Sembra un caso, ma proprio per oggi 28 maggio è previsto il voto alla camera per la ratifica della Convenzione. Ed è solo di poche ore fa la notizia della morte di Fabiana Luzzi, la sedicenne di Corigliano Calabro accoltellata e arsa viva dal fidanzatino diciassettenne, per averlo rifiutato. Epilogo tragico che, come sempre, si poteva evitare. Che il giovane fosse violento era risaputo, il papà di Fabiana non voleva che frequentasse “quel piccolo malavitoso”. Le amiche ora denunciano gli agguati di lui fuori dalla scuola per minacciarla, raccontano che Fabiana aveva subito anche la pubblica umiliazione di essere presa a sassate, per strada, davanti agli amici, perché gli rifiutava un ultimo chiarimento dopo essersi lasciati. E adesso Fabiana non c’è più, strappata alla vita da una cieca follia.

 L’ultima di una lunga lista: sono  precisamente centoventiquattro le donne uccise in Italia solo nel 2012, secondo sondaggi recenti.  Di alcune le cronache non riportano neanche i nomi, come se fossimo assuefatti e loro non fossero mai esistite. Morti violente, di urla soffocate, di occhi disperati, di stupore. Morti che si consumano tra l’incredulità della vittima e la rabbia cieca del carnefice. E chissà quante altre donne finiranno tra i sondaggi del 2013: quelle che non hanno il coraggio di denunciare, che perdonano per paura, convinte che sarà l’ultima volta, che è solo un attimo di rabbia, perché chi ti ama non può farti male, senza sapere che dall’insulto allo schiaffo il passo è breve.

La lotta alla parità dura da secoli, ma siamo proprio sicuri dei risultati? La frequenza con cui si verificano questi episodi denuncia un’ Italia di stereotipi, dove la donna ha pari opportunità rispetto ad un uomo spesso solo a parole, dove le “quote rosa” sono ancora ritornelli da propaganda e non un’ovvietà. Un’ Italia patriarcale, dove la violenza domestica spesso non è neanche percepita come un crimine, dove fino a trent’anni fa a un marito o un padre era consentito picchiare per “correggere” il comportamento delle donne. Un’Italia in cui ancora si discute se considerarlo o meno stupro, se la vittima indossava un paio di jeans piuttosto che la minigonna.

Irene Megliola

Ieri alla camera un minuto di silenzio per Fabiana ha preceduto l’esame della ratifica.

«Ancora una volta una violenza travestita da amore – ha commentato il presidente Laura Boldrini – un orrore al quale non possiamo assuefarci e che dimostra come la sfida cui siamo chiamati sia culturale».

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